Approfondimenti

Questa pagina vuole essere un contenitore di approfondimenti e di tematiche legate al tema della migrazione.
A differenza dell “home” dove in maniera altalenante cercheremo di pubblicare notizie piu’ o meno aggiornate, questa pagina entrera’ direttamente nello specifico delle tematiche legate alla migrazione.
Buona lettura!

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CRESCERE OGGI: CHI CI HA RUBATO IL TRAGUARDO?

segnaliamo questa interessante pubblicazione a cura di Stefano Laffi, Stefano Laffi, ricercatore sociale, fondatore dell’agenzia di ricerca sociale Codici di Milano, collaboratore della rivista Lo Straniero. Ha lavorato anche per la Rai e per Radio Popolare. Si occupa di mutamento sociale, culture giovanili, processi di emarginazione e impoverimento, consumi e dipendenza. Ha scritto, fra gli altri, Il furto. Mercificazione dell’età giovanile (L’ancora del mediterraneo, nuova edizione 2009) e curato Le pratiche dell’inchiesta sociale (Edizioni dell’Asino, 2009).

Autore: Stefano Laffi
Titolo originale: Crescere oggi: chi ha rubato il traguardo?
Anno di pubblicazione: 2010

I ricercatori e le ricercatrici di Codici sostengono la libera circolazione delle idee e dei prodotti intellettuali, consapevoli che il
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CRESCERE OGGI: CHI HA RUBATO IL TRAGUARDO?
Stefano Laffi
Metafore e scherzi
Prendiamo la corsa, uno dei gesti più naturali dell’infanzia, una delle metafore con cui si racconta la crescita.
Già sappiamo qual è l’accusa più frequente rivolta dagli adulti più lamentosi verso i più giovani fra noi, si
dice che non hanno voglia di correre, che si fermano, sono pigri, non vogliono arrivare da nessuna parte,
manca loro l’agonismo, la tensione al traguardo e alla medaglia… Vediamo un po’ cosa succede nella realtà.
Intanto diciamo che qualcuno parte scalzo, senza scarpe. Sono i migranti quando arrivano, sono i ragazzini
messi alla prova, sono i ragazzini “irrequieti” che vengono subito certificati, sono coloro che non godono
delle stesse situazioni di partenza degli altri, per la situazione famigliare e di reddito, per le condizioni
emotive e materiali di vita quotidiana. È difficile parlare di deficit di agonismo, perché la competizione nel
loro caso è truccata: non hanno gli stessi mezzi, rischiano di non poter nemmeno gareggiare e la corsa
mancata è in questo caso un loro rammarico più che un nostro rimprovero.
E per gli altri? La corsa, come metafora della crescita, è spesso rappresentata come corsa ad ostacoli, ci sono
infatti in genere difficoltà rituali ed attese, legate alla scuola e alle sue prove, alle amicizie e al gruppo dei
pari, alla formazione emotiva prima e sentimentale poi. Chi fa atletica sa che gli ostacoli sono fatti ad “L”,
cioè hanno la forma che consente loro di cadere non appena si toccano, che sia il piede in allungo che
scavalca o sia la gamba da “richiamare” nel passarci sopra. Insomma a farli cadere non succede nulla di
grave, non si perdono punti, solo si rallenta un po’ la corsa. Per la maggioranza dei ragazzi è così, se tocchi e
sbagli non cadi, insomma un debito a scuola, una bocciatura, un colloquio di lavoro andato male, un incontro
amoroso infelice, … mi sembra che non siano tragedie, per fortuna, le seconde chance siano parecchie, il
prezzo da pagare limitato, le scelte irreversibili e i passaggi definitivi molto pochi. Ammesso che sia corsa ad
ostacoli, non mi sembrano gli ostacoli il vero problema.
Chi ha fatto atletica sa che non c’è scherzo peggiore del girare a qualcuno l’ostacolo dal lato sbagliato, a quel
punto l’ostacolo fa da trincea, non cade ma si oppone, cioè chi scavalca e tocca cade, perché nella corsa ad
ostacoli l’obiettivo è sorvolare più bassi possibile per non perdere velocità e il contatto duro sarebbe fatale.
Ecco, i bambini e i ragazzi scalzi di cui si diceva forse hanno ostacoli girati, solo sentono un impatto duro,
vengono letteralmente respinti, dalla scuola quando non sa come adattarsi all’idea di diversificare didattica e
forme di attenzione, dalla società più larga quando li “certifica” o li mette in comunità, dai pari quando
vengono condizionati dal perbenismo degli adulti, e qualcuno ancor prima, alle frontiere del nostro paese…
Traguardi e miraggi.
Cosa sogni quando corri, intendo nel bel mezzo della corsa? Non la medaglia, quella prima o dopo se ci tieni
o qualcuno ti ha fatto capire che se l’aspetta da te, ma durante, nel mezzo della fatica, sogni il traguardo,
arrivare alla fine. Se voglio pensare uno scherzo diabolico tolgo il traguardo, e lo faccio nel bel mezzo della
corsa. Anzi, lo faccio diventare un miraggio: ti dico che serve il diploma, poi quando ci arriva alzo la posta e
dico che è meglio farsi almeno tre anni di università, poi dopo ti faccio capire che tutti intendono una laurea
solo quando comprende anche la specialistica, e alla fine faccio intendere che fa punteggio se hai anche un
master… Ricordo personalmente le parole rancorose di un docente precario durante il dottorato, rivolto ai
noi dottorandi che ci interrogavamo sul futuro: “ora avete la chiave, perché fra poco vi dottorate, ma non c’è
più la porta, qua non si entra”.
Togliere il traguardo equivale a innescare il moto perpetuo, la rincorsa infinita, non si sa di cosa. Cosa sono i
precari – ricercatori o altro – se non corridori sfiniti, atleti invecchiati in una gara truccata nella quale si
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allontana ogni anno il filo di lana e al foto finish si vedranno non muscoli ma rughe? Quando quel docente
usava la sua immagine velenosa, l’età media dei ricercatori universitari in Italia era 47 anni, esattamente
com’è oggi: ma che senso ha una rincorsa del genere? E poi a dilatare questa fase agonistica oltre misura si
rischia che la gara non sia a chi è più veloce ma a chi è più furbo, ha più mezzi, ecc. L’agonismo ha almeno
il pregio di mostrare il talento, nella corsa infinita ci entra di tutto, trucchi, raccomandazioni, ecc..
Passeggiate
Torniamo al lamento iniziale, la mancanza di agonismo. Ma di quale corsa si può parlare se non si vince mai
e non si vince niente, si transita solo a continue tappe intermedie? Quale adrenalina pretendi che circoli in
una passeggiata? Al traguardo ci si sta disabituando, diciamolo. I ragazzi stanno imparando a non
considerarlo, a non guardarlo. Potrebbe anche essere una conquista, generazioni che smettono di porsi
obiettivi codificati e scelte forti di appartenenza – quale lavoro, quale famiglia, quale casa, quale città, quale
partito – e vivono il presente, ripudiano la corsia dritta e la distanza predefinita, ripudiano l’agonismo e
l’apnea dello sforzo, per pensare a sé e agli altri, godersi la serata. Ma questo vagare non agonistico solo per
pochi sembra una forma esistenziale artistica, forse pochi li possiamo chiamare flaneur, oppure oppositori
alla Alexander Langer del mito della gara, della velocità e della forza. Per molti è una condizione subita,
spesso accettata per l’elevato livello di confort che garantisce, come fosse una singolare specialità olimpica,
il “vagare”, senza fuggire da nessuno, senza andare contro nessuno, senza una meta precisa, senza sapere
quanto dura la gara e quando si sa che è finita.
Un vagare però tormentato da continui molestatori, per nulla preoccupati della competizione paradossale cui
sono chiamati i ragazzi, ma occupati piuttosto a dirti cosa devi comprare, con cosa ti devi curare, chi devi
votare, ecc. Insomma, con le dovute eccezioni di chi davvero se la passa male, la sensazione è che il
“sistema”, ovvero quella collusione fra istituzioni degli adulti (mercato, famiglia, scuola, partiti, chiesa,…)
intangibile ma decisiva nel prefigurare le opportunità degli individui, abbia previsto per i ragazzi la
negazione dell’agonismo perché elemento di disturbo dell’edonismo, nell’idea che non c’è alcuna
competizione ma un’autopremiazione costante pret a porter, il consumo. Non c’è conflitto in famiglia, non
c’è gara a scuola, non c’è nulla da vincere al lavoro, ma una consolazione costante via shopping c’è sempre.
Sarà un caso, ma la ricerca ci dice che gli unici che in questo momento sentono davvero la scuola e il lavoro
come un’esperienza significativa e ci trovano un senso pieno sono i ragazzi stranieri di seconda generazione,
quelli per i quale è davvero una sfida, perché c’è davvero qualcosa da vincere, perché si giocano sul serio
delle chance di vita diverse ad ogni ostacolo superato.
Il gioco e la noia.
Ora immaginiamo un gioco – perché non è una gara, l’abbiamo capito – in cui non si fugge da niente, non si
rischia niente, non ci sono regole particolari, non c’è vero traguardo, si può sempre tornare indietro ma mai
saltare in avanti, non c’è nulla da vincere ma premi di consolazione per tutti… potrà mai essere divertente? Si
potrà mai imparare qualcosa? Quando un ricercatore si confronta con un gruppo di insegnanti e insieme a
loro ragiona sul vero demone che si combatte giorno per giorno in classe quando si ha buona volontà, viene
sempre fuori che questo è la noia. Ed è una noia particolare, non da vuoto o mancanza di opportunità, da
frustrazione per immobilità o disuguaglianza, ma da saturazione, da troppo pieno, da eccedenza dei possibili
e al tempo stesso da inutilità delle scelte, perché la sensazioni di tutti è che qualunque cosa si faccia nulla
cambia davvero…
Ora seguiamo questa scia. Cosa è successo? In una società basata non sul senso di comunità, di fiducia o su
regole condivise ma sul controllo, le parole chiave diventano rischio, prevenzione, assicurazione. Sociologi,
psicologi, giornalisti, avvocati, medici, internauti, commercianti, ministri… tutti vendono sistemi di allarmi e
sistemi di sicurezza, e i genitori li comprano a piene mani. Lo stesso mercato vende la minaccia e la sua
soluzione, l’inquinamento e il sistema di depurazione, il veleno e il vaccino, il panico e il decalogo per
difendersi. È un business fantastico, perché ammantato di scientificità, sfiora la chiromanzia: quando
all’approssimarsi del capodanno 2000 per il timore che saltassero i sistemi computer-dipendenti industrie,
ospedali e pubbliche amministrazioni investirono un patrimonio in consulenza informatiche e non successe
nulla, alla sensazione di un’enorme bufala i consulenti risposero ‘eh no, non è successo nulla proprio perché
l’abbiamo prevenuto!”
Protezione
Qualcuno ha detto che un enorme profilattico sta avvolgendo i ragazzi. In una società fra le meno conflittuali
e meno pericolose che si siano viste negli ultimi decenni non c’è mai stato tanto allarme e tanta protezione.
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Perché la paura è un mercato, ed è uno strumento di governo, di manipolazione dell’attenzione collettiva. E
perché è più facile “preoccuparsi di” che “occuparsi di”, l’investimento di tempo e umanità è diverso.
Cosa abbiamo sacrificato in nome della sicurezza, cosa vuol dire negare i pericoli? Tentiamo un elenco dei
punti di questa sterilizzazione della vita dei ragazzi, allungabile a piacere.
Il viaggio, innanzitutto. È sorprendente quanto poco sia diffusa la cultura del viaggio fra i ragazzi, come le
nuove possibilità economiche delle famiglie siano state rapidamente tradotte in beni materiali ma molto
meno in “giri per il mondo”: c’è turismo familiare ma molto meno viaggio individuale, c’è mobilità
pendolare ma molto meno avventura nella metropoli, molti ragazzi non hanno mai avuto uno zaino da
viaggio e non sono mai stati in tenda, e capita di sentirsi dire da ventenni che la vacanza ideale è la crociera.
L’incontro e il caso. La tendenza al contatto fra simili è sempre stata forte fra i ragazzi ma il problema è che
un bambino cresce legato ad un passeggino e un seggiolino in auto, la scuola separa, il mercato abitua a
pensarci come target, lo spazio pubblico di libero incontro si riduce, i posti a sedere nei mezzi di trasporto
pubblico negano la conversazione casuale, in cuffia e nell’auricolare c’è sempre solo chi vuoi tu…. insomma
quando incontri l’altro?
Lo smarrimento. Ci si può più perdere? Se il genitore controlla, se in tasca hai sempre i soldi per il taxi, se ti
localizzi con il navigatore, se sei raggiungibile col cellulare, se la televisione ogni settimana manda in onda
la caccia al disperso, un ragazzo potrà più perdersi, ovvero acquisire il senso dell’orientamento, imparare a
chiedere, gestire l’imprevisto ovvero incontrare luoghi e persone non previste?
La mediazione del denaro. È capitato tutti di perdere o dimenticare il portafoglio ed immergersi
nell’avventura di dover trovare un passaggio, farsi prestare le cose, chiedere quanto non si era mai osato
chiedere…, per dire che l’avere immerso nel denaro e nelle transazioni economiche la microfisica della vita
quotidiana ne ha sterilizzato le componenti naturali di avventura, perché mette fuori gioco la generosità, non
contempla la gratuità, annulla le conversazioni, autolimita le possibilità al solo tariffario dei prezzi,
predispone al solo calcolo anziché al ragionamento e alla fiducia.
La caccia al finale. Da tempo si è affermato un “mercato degli effetti”, dei “finali delle storie” a scapito delle
storie stesse: l’uso dei soli refrain delle canzoni negli spot commerciali, il policonsumo di sostanze
stupefacenti come pura ricerca di effetti, la compravendita nei media di format come garanzie di indici di
ascolto, le scene dei goal sul telefonino, l’organizzazione di eventi come pure perfomance comunicative a
largo pubblico, il mercato di massa della pornografia, ecc. sono tutti esempi di questa progressiva
insofferenza al processo per il solo risultato, alla storia per il solo finale, al percorso per il solo traguardo.
Come dire che la rappresentazione della realtà – quella più manipolabile dal mercato – è dopata, non c’è più
la catarsi, non c’è attesa e paziente costruzione dei personaggi, ma solo il colpo di scena, la scena madre,
l’urlo, l’orgasmo.
Il bivio. Le scelte cambiano davvero i percorsi? Se le scelte sono sempre di consumo perché tutto dura
davvero poco, non è credibile e promette sempre la reversibilità, allora cosa cambia, cioè cosa conta la mia
decisione di andare per la strada di sinistra anziché di destra? La corruzione della politica, l’economia di
mercato, l’imperativo degli affetti in famiglia possono davvero consentire la scelta, che è separazione e
rinuncia per definizione, maturazione e consapevolezza della mia finitezza?
Il prezzo
Non rischia nulla chi non fa nulla, si pensa, la garanzia di incolumità sembrerebbe essere nell’immobilismo.
Ma è evidente a qualunque educatore che senza viaggio, incontro, smarrimento, scelta, ecc. non c’è
apprendimento, non c’è scoperta di sé, non c’è sfida, non c’è esercizio delle passioni.
E poi non è vera l’equazione fra immobilismo e incolumità. Nelle ricerche fatte sui forti consumatori di
sostanze colpisce la ricorrenza dell’assenza del viaggio come tratto unificante, secondo il noto principio che
se il viaggio non lo fai in orizzontale lo farai comunque in verticale, e l’avventura artificiale in cattività
domestica non è meglio e più sicura di quella reale all’aperto. Ed è noto che se non ti fai male da piccolo
cadendo dalla bici hai più probabilità di essere quello che guida a occhi chiusi in macchina la sera, per una
fame naturale e mai saziata prima di rischio, di misura del tuo corpo e dei suoi limiti, di contatto col dolore.